Vehementer laetor tibi probari sententiam et orationem meam; qua si saepius uti liceret, nihil esset negotii libertatem et rem publicam reciperare; sed homo amens et perditus multoque nequior quam ille ipse, quem tu nequissimum occisum esse dixisti, caedis initium quaerit, nullamque aliam ob causam me auctorem fuisse Caesaris interficiendi criminatur, nisi ut in me veterani incitentur: quod ego periculum non extimesco, modo vestri facti gloriam cum mea laude communicet. Ita nec Pisoni, qui in eum primus invectus est nullo assentiente, nec mihi, qui idem tricesimo post die feci, nec P. Servilio, qui me est consecutus, tuto in senatum venire licet; caedem enim gladiator quaerit eiusque initium a. d. XIII. Kal. Octobr. a me se facturum putavit, ad quem paratus venerat, quum in villa Metelli complures dies commentatus esset; quae autem in lustris et in vino commentatio potuit esse? itaque omnibus est visus, ut ad te antea scripsi, vomere suo more, non dicere.
[2] Quare quod scribis te confidere auctoritate et loqueantia nostra aliquid profici posse, nonnhil, ut in tantis malis, est profectum. Intellegit enim populus Romanus tres esse consulere qui, quia de re publica bene senserit, libere locuit sint, tuto in senatum venire non possint. Nec est praeterea quod quiqcuam exspectes. […]
[3] Quare spes est omnis in vobis; qui si idcirco abestis ut sitis in tuto, ne in vobis quidem; sin aliquid dignum vestra gloria cogitatis, velim salvis nobis; sin id minus, res tamen publica per vos brevi tempore ius suum reciperabit. Ego tuis neque desum neque dero. Qui sive non referent, mea tibi tamen benivolentia fidesque praestabitur. Vale.
Sono oltremodo lietoche tu concordi con il mio punto di vista e con il mio discorso. Se mi fosse consentito parlare così un po’ più spesso, non ci vorrebbe un grande sforzo per ristabilire la libertà e la repubblica. Ma quell’individuo pazzo e criminale, mille volte più infame di quello di cui tu dicesti era stato ucciso il più infame degli uomini, sta cercando il momento buono per dare il via al massacro; e incolpandomi di essere stato l’ispiratore dell’uccisione di Cesare, non mira ad altro che a scatenarmi contro i veterani.Un pericolo, questo, che non mi fa paura, purchè esso accumuni la gloria della vostra impresa con i miei meriti. Intanto nè a Pisone, che è stato il primo ad attaccarlo, senza trovare consensi, nè a me, che ho fatto lo stesso trenta giorni dopo, nè a Publio Servillo, che ha seguito il mio esempio, è possibile recarsi in senato senza pericolo. Ciò che quel macellaio vuole è un massacro, e intendeva cominciare da me il 19 settembre; ed era venuto preparato allìappuntamento, dopo aver meditato per parecchi giorni nella casa di Metello. Figurati che meditazione, fra i bagordi e il vino! E così l’impressione di tutti, come ti ho già scritto, è stata non già che parlasse ma che vomitasse, secondo il suo stile.
Mi scrivi di avere fiducia che con la mia autorità e la mia eloquenza si possa ottenere qualche risultato concreto: e in realtà qualcosa si è ottenuto, se pensi alla gravità dei nostri mali. Ora il popolo romano si rende conto che ci sono tre consolari i quali, per la loro devozione alla repubblica e la franchezza della loro parola, non possono entrare senza pericolo in senato. Altro per ora non ti puoi attendere. […]
Dunque ogni speranza riposa in voi; ma se state lontani badano solo alla vostra sicurezza; neppure in voi. Se invece meditate qualche impresa degna della vosatra gloria, vorrei vivere abbastanza da vederla realizzata; e se ciò non fosse, la repubblica tuttavia riacquisteràò fra poco, per merito vostro i suoi diritti. Ai tuoi cari non manca e non mancherà il mio appogio. ricorrano a me o no, in ogni casoc ti è garantito il mio affettoe la mia fedeltà. Addio
domenica 21 settembre 2014
Lucrezio: De rerum Natura 1,1-43
Aeneadum genetrix, hominum dovunque voluptas alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortu lumi a solis: te dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tubi suavi daedala tellus summittit Flores, tubi rident aeqora ponti placatumque nitet diffuso lumi e caelum. Nam simil ac species patefactast verna diei et reservata viget genitabilis aura favoni, aeriae primum volucres te, diva, tuumque significant initio perculsae corda tua vi. Inde ferae pecudes persulant pabula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta Lepore te sequitur cupido quo quamquem inducere pergis. Denique per maria ac montis fluviosque rapace frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per pectora amorem efficis ut cupide generatim saecla propagent. Quae quoniam rerum naturam sola gubernas nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse quos ego de rerum natura pangere conor Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti eccellere rebus. Qui magis aeternum da dictis, diva, leporem. Effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant. Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavora armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reicit aeter,o devi tua vulnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circumfusa super, suavis ex ore loquelas funde petens placidam Romanis, inculta, pacem; nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo mec Memmi Clara propago talibus in rebus communi desse saluti.
Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dei, alma venere che sotto gli astri vaganti del cielo popoli il mare solcato da navi e la terra feconda di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma, e una volta sbocciata può vedere la luce del sole; te, o dea, te fuggono i venti, fuggono al tuo apparire le nubi in cielo, per te la terra industriosa suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare, e il cielo pacato risplende la luce diffusa. Non appena ai svela ilvolto primaverile dei giorni, e libero prende vigore il soffio del fecondo zefiro, per primi gli ucceli dell’aria annunziano te, nostra dea e il tuo arrivo, turbati i cuori della forza vitale. Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio, e guadano o rapidi fiumi: così prigioniero al tuo incanto, ognuno ti segue amaioso ovunque tu voglia condurlo. E infine per i mari e per i monti e nei corsi impetuoi dei fiumi, nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure a tutti fondendo in petto la dolcezza dell’amore, fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le stirpi. Poiché tu solamente governi la natura delle cose e nulla senza di te può sorgere alle soci e regioni della luce, nulla senza di te prodursi di lieto e di amabile, desidero averti compagna nello scrivere i versi che intendo comporre sulla natura di tutte le cose, per la prole di Memmio diletta, che sempre tu, o dea, volesti eccellesse di tutti i pregi adornata. Tanto più concedi, o dea, eterna grazie ai miei detti. E fa che intanto le feroci opere della guerra per tutti i mari e le terre riposino sopite. Infatti tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, poiché le crudeli azioni guerresche governa Marte possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, vinto dall’eterna ferita d’amore, e così mirandoti con il tornito collo reclino, in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi, e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino. Quando egli, o divina, riposa sul tuo corpo santo, riversandoti su di lui effondi dalle labbara soavi parole, e chiedi, o gloriosa, una placida pace per i Romani. Poichè io non posso compiere la mia opera in un’epoca avversa alla patria, nè l’illustre stirpe di Memmio può mancare in tale discrimine alla salvezza comune.
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